Un tempo, quando le parole erano ancora importanti, li chiamavano dati personali. Oggi di personale hanno tutto e niente. Tutto perché mai come in quest’epoca il dato è diventato iper-profilato e profilabile. Niente perché non sono più della persona che li produce, né dello Stato dove nasciamo, cresciamo, lavoriamo e paghiamo le tasse. Sono dati personali, ma non sono più nostri. Né, qualora dovesse accaderci qualcosa di brutto, dei nostri cari. Esemplare è la storia di quel papà che scrisse ad Apple per chiedere di poter accedere al dispositivo del figlio, morto, perché lì c’erano gli ultimi ricordi insieme. Non si può fare, gli risposero da Cupertino. Una questione di privacy.
Ebbene sì, la privacy. Non è più una prerogativa di istituzioni e governi democratici ma delle aziende tecnologiche. Difendere la privacy degli utenti vuol dire non rompere il vincolo di fiducia che, nell’era dell’IoT, si instaura tra vendor tecnologici e compratori. Io fornisco a te un oggetto che diventa sempre più “personale”, raccolgo molti dati (che spesso uso per profilazione e marketing, anche se a te utente non lo dirò mai), ma della tua vita solo io, la tua azienda, so tutto. Un po’ come il segreto bancario o quello medico.
Quindi questi dati non verranno mai consegnati all’esterno, ci promettono. E’ per certi versi forse anche meglio così, anche perché queste società hanno oramai un valore commerciale superiore al Pil di uno Stato. E lo Stato, quindi la politica, è corruttibile. Un ricco (e potente) non lo compri con altri soldi.
Ma non è questo il punto. Io posso scegliere consapevolmente di far custodire i miei dati a qualcuno, così come faccio con i miei risparmi e gli oggetti di valore. Scelgo io se tenere la cassaforte in casa oppure depositare tutto in banca.
Il punto è un altro: siamo ignoranti, perché ancora non abbiamo capito quanto valore abbiano davvero i nostri dati.
E quindi ci meritiamo tutto. Ci meritiamo la mail di spam, ci meritiamo la telefonata dal call center con sede in Albania, ci meritiamo il furto di identità, ci meritiamo SANZIONI PESANTI!
Perché se non sappiamo quanto valgono per noi i nostri dati allora non li tuteleremo mai!
La tecnologia è una cosa bellissima. Ci aiuta a vivere meglio, a organizzare le nostre relazioni, ci fa risparmiare tempo e soldi, ci guida da un punto A a un punto B. Eccoci qui, quarant’anni dopo la promessa di Bill Gates, con Windows, di portare “un pc in ogni famiglia”, e dieci da quando il suo acerrimo amico Steve Jobs, con l’iPhone, è riuscito a portare “Internet in ogni tasca”.
Internet è una cosa bellissima. Pensate, il nostro smartphone sa più cose di noi del nostro migliore amico, quello che conosciamo da una vita, sin da bambini. Sa più cose di noi dei nostri genitori, fratelli, sorelle, del nostro capo, del medico, del salumiere di fiducia, del direttore di banca. Sa quanti soldi abbiamo sul conto (e quanti conti abbiamo), se siamo assicurati (e per cosa). Conosce le nostre abitudini, i nostri dati biometrici, sa se, quando e quanto ci muoviamo, dove andiamo, se siamo delle schiappe a correre, quali video guardiamo, cosa compriamo. Persino cosa stiamo per comprare e poi non compriamo (e lo ricorda per mesi). Grazie ai social, poi, il nostro fido device sa con chi interloquiamo di più, e con chi faremmo volentieri una scappatella. In alcuni casi può anche contribuire a risolvere un delitto.
Una nota azienda che si occupa dello sviluppo di software antivirus, ha reso pubblici i risultati della ricerca annuale sulle abitudini degli utenti nell’approccio ad internet. In questo ambito il dato che emerge è che il valore medio dei dati personali registrati su Internet è di circa € 40! Il valore medio dei dati salvati sui computer e sui dispositivi mobili degli utenti è di € 612. Questo è uno dei motivi che spinge molte vittime dei virus che criptano i file a desiderare di recuperare i dati pagando il riscatto richiesto, che spesso si aggira intorno alla metà di questo valore.
La diffusione di virus di tipo ransomware, in crescente diffusione negli ultimi mesi, è agevolata proprio dal pagamento del riscatto da parte delle vittime nel tentativo di recuperare i file. Nonostante non vi sia alcuna certezza di recupero pagando la cifra richiesta dai criminali, le statistiche indicano che almeno il 40% degli utenti sia interessata a come pagare il riscatto.
Il motivo è semplice: il valore economico dei dati creati e salvati nel tempo supera enormemente la cifra richiesta dal virus. Per il 39% degli intervistati il valore supera addirittura i 1000$ (circa 897€).
Il 90% degli utenti afferma di salvare sui propri dispositivi dati personali importanti, quali video, foto, messaggi di posta e contatti, ammettendo che, in caso di perdita definitiva, non sarebbe in grado di recuperare il 15% di questi file.
Un altro dato importante è che il 90% degli utenti Windows che contribuiscono alla statistica hanno installato un software antivirus, che purtroppo non da alcuna certezza soprattutto nel caso di software gratuiti, ma che può limitare i danni. Purtroppo solo 6 utenti Apple su 10 ha la stessa accortezza. Il dato più grave racconta che il 23% degli intervistati non ha adottato una strategia di salvataggio dei dati, neanche di quelli più importanti.
Inoltre, sfortunatamente, i ransomware non sono l’unica minaccia a mettere in pericolo i dati personali. Ad esempio, i dati potrebbero venire persi o rubati insieme al dispositivo. Questo significa che un comportamento poco attento potrebbe portare a subire un’esperienza traumatica e una consistente perdita finanziaria.
Ci propongono l’iscrizione a Facebook gratuitamente, così come gratuitamente utilizziamo Google. Se ci facessero pagare un abbonamento, in cambio della promessa di non profilarci, quanti di noi, sinceramente, sarebbero disposti davvero a sottoscriverlo?
Il vero business model dei social network siamo noi, le tracce che lasciamo quando navighiamo, consumiamo, visualizziamo o clicchiamo inserzioni. Senza questi dati verrebbe meno tutto il modello economico. Tant’è che è possibile dare anche un valore economico ad ogni iscritto: stando ai bilanci 2016 di Facebook, il valore medio di un utente, sul social, si aggira intorno ai 16 dollari.
Secondo uno studio commissionato da DG Connect, l’organo che si occupa di monitorare (e, di fatto, normare, attraverso la Commissione) il mercato europeo delle comunicazioni, diretto dall’italiano Roberto Viola, nel 2016 il comparto dati nell’Ue ha prodotto quasi 60 miliardi di euro, e nel giro dei prossimi tre anni potrebbe raggiungere quota 100 miliardi.
E nell’industria dei dati non ci sono solo i giganti americani: c’è posto per tutti. Qualcuno ha detto che i dati sono il nuovo petrolio, altri che valgono più dei soldi.
Quando andrete a fare la spesa, chiedete se accettano like…
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